Articolo pubblicato il 18-10-2024

FRANCO LINI (1923-1996)

 

Ultimamente, Gianni Cancellieri ci fa partecipi dei tesori della sua memoria. Qui racconta la figura di Franco Lini, uno dei massimi giornalisti dell’automobile e direttore sportivo della Ferrari negli anni sessanta, ed esprime il senso di amicizia che li legava.

Il testo è la versione in lingua italiana del profilo di Franco Lini scritto da Gianni per il recente volume Seventies Motor Racing, Palawan Press, London 2024, che riproduce una scelta delle fotografie di Lini, il cui archivio si trova ora presso la Grand Prix Library. Doug Nye  – che lo gestisce, nel concedere il permesso di riproduzione scrive: “Franco was very kind to me on occasion and I had a lot of respect for him.  It is a privilege today to be preserving his photography, and he was in fact a most capable photographer indeed, with a good technical ‘eye’ too.”

Nel frontespizio, Kyalami, GP del Sud Africa, 1 gennaio 1968. Jim Clark (Lotus 49-Ford Cosworth) coglie la sua ultima vittoria in un Gran Premio e nel tagliare il traguardo risponde al saluto a pollice alzato di Colin Chapman, progettista della monoposto.

Foto di Franco Lini / Grand Prix Library

 

Con Franco Lini amavo parlare nel dialetto che ancora sopravvive fra la gente della nostra città natale, la piccola ma ben conosciuta Mantova. Tutti e due appassionati di corse e inevitabilmente grandi ammiratori del più veloce fra i nostri concittadini, Tazio Nuvolari, scegliemmo la via del giornalismo motoristico e ci conoscemmo nei primi anni 60.

Ben presto diventammo amici, malgrado un ostacolo tutt’altro che trascurabile: Franco era un inviato conosciuto in tutto il mondo perché scriveva per il quotidiano sportivo francese L’Équipe e il settimanale Auto Italiana, leader della stampa italiana del settore. Io, invece, come, principiante, lavoravo per un piccolo periodico nato da poco e che lottava per affermarsi, Autosprint. Fra noi c’era un notevole distacco quanto a esperienza e a livello professionale e in più eravamo accaniti concorrenti ma nulla di tutto ciò impedì alla nostra amicizia di crescere e di durare. Per me Franco era un maestro e senza dubbio gli devo molto. Con il passare del tempo riuscii a restituirgli qualcosa e questo rafforzò ulteriormente il nostro rapporto.

Franco Enzo Lini nacque come primogenito di Giuseppe e Cesira, seguito da due fratelli e una sorella – Domenico, Ilde e Ildebrando –, il 7 luglio 1923, a Curtatone, un piccolo comune vicino a Mantova ma presto si trasferì con la famiglia a Milano, dove completò i suoi studi fino al diploma di Maturità tecnica. Crebbe in un’epoca che vide progredire lentamente la diffusione dell’automobile, la quale conservava ancora per molti un aspetto magico, qualcosa come un’icona del potere di raggiungere alte velocità su strade normali e addirittura inimmaginabili nelle corse. Franco era affascinato dalla meccanica e continuò a esserlo per tutta la sua vita.

Verso la fine della Seconda guerra mondiale partì arruolandosi come volontario in Marina e poi, tornato alla vita civile, dovette fronteggiare una situazione difficile, provando diversi lavori nel campo della meccanica, compreso il commercio di ricambi. Riuscì comunque a tirare avanti e con i suoi risparmi acquistò una moto. Prese parte a gare di regolarità ma anche a qualcuna di velocità e incappò in un incidente che per poco non gli costò la vita.

Incominciò a collaborare con giornali di crescente importanza, seguendo gare di auto e di moto. Nel 1955 sposò Hélène Cintioli, una ragazza francese di origine italiana che lavorava a Parigi a L’Équipe come segretaria del caporedattore, Pierre About. I due divennero presto e rimasero per l’intera vita corrispondenti del quotidiano sportivo francese da Milano (Hélène) e dall’Italia (Franco). Successivamente Franco fu assunto da Auto Italiana e da allora divenne una costante presenza alle più importanti corse del mondo. Come ricorda Béatrice, la sua unica figlia, amava dire: “Ho una doppia fortuna: faccio il lavoro che amo e, come non bastasse, qualcuno me lo paga”.

Nel frattempo, la sua innata passione per le corse non diminuì affatto: nel 1965, con un’Alfa Romeo TZ2, disputò il Rally Jolly Hotels e vinse la sua classe, alternandosi al volante con il giovane e promettente pilota professionista Andrea de Adamich.

Nel 1966, la gestione della Scuderia Ferrari da parte del direttore sportivo Eugenio Dragoni fu attraversata da momenti di tensione, culminati nel licenziamento di John Surtees a metà della stagione. Una decisione comunque impensabile senza l’approvazione di Enzo Ferrari, il quale in ogni caso, alla fine dell’anno, apportò al vertice dell’organico un ulteriore sorprendente cambiamento. Il 17 dicembre, la sua tradizionale conferenza stampa si tenne in un ufficio di Maranello che era stato adattato a servire come studio televisivo in collegamento con la RAI, al tempo l’unica rete televisiva nazionale italiana, con soli sei giornalisti invitati a partecipare. Ignorando allegramente l’uragano di proteste da parte di dozzine di esclusi, Ferrari annunciò fra l’altro il nome del nuovo direttore sportivo del team per il 1967. “Al fine di evitare ulteriori critiche – disse – ho fatto un curioso scherzo: ho preso un giornalista, uno di voi, e l’ho messo in quella posizione. È Franco Lini, che voi tutti conoscete”.

Non era la prima volta che un rappresentante della stampa veniva scelto per dirigere l’attività sportiva di Maranello. Dieci anni prima era toccato a Eraldo Sculati, un ingegnere “prestato” al giornalismo, che chiuse il 1956 con risultati di grande prestigio: la Ferrari prima nel Campionato del Mondo di Formula 1, con Fangio, e nel Campionato Mondiale Sport per Marche con vittorie nella 12 Ore di Sebring, nella grande Mille Miglia e nel Gran Premio di Svezia a Kristianstad.

Nel 1967, a 43 anni, Franco Lini era al culmine della sua carriera. Molto competente, dinamico, instancabilmente presente alle corse (e non solo a quelle più importanti), era ben conosciuto e stimato da piloti, costruttori e organizzatori di quasi tutto il mondo. Dal suo prestigio professionale, perfino dalla abituale eleganza del suo abbigliamento era legittimo attendersi effetti positivi in termini di promozione dell’immagine di una marca di automobili tra le più famose e desiderate di ogni tempo. Franco Lini direttore sportivo della Ferrari sembrava inequivocabilmente l’uomo giusto al posto giusto.

La stagione 1967 ebbe un avvio sensazionale con tre Ferrari che conquistarono i primi tre posti nella 24 Ore di Daytona sconfiggendo le Ford GT. Sei mesi dopo la vittoria della Ford sulla marca italiana nella 24 Ore di Le Mans, era adesso la Ferrari a rispondere umiliando il gigante americano in casa propria. Tre rossi prototipi tagliarono il traguardo fianco a fianco: una spettacolare coreografia orchestrata da Franco stesso, quasi in risposta all’arrivo in parata di tre Ford MkII dominatrici a Le Mans 1966. Come dire: “Prendi questa, Henry!”. Come sempre, non sarebbe mai stato facile battere la Ferrari al suo massimo.

Un’altra vittoria nella successiva 1000 Chilometri di Monza oltre a diversi piazzamenti furono decisivi per la conquista del Campionato Mondiale Sport-Prototipi di quell’anno. Invece la stagione di Formula 1 fu tra le più mediocri di sempre e fu inoltre funestata dal terrificante incidente in cui Lorenzo Bandini perse la vita, dopo che la sua Ferrari si schiantò incendiandosi nel Gran Premio di Monaco. Franco era stato un grande amico di Lorenzo e fu profondamente scosso da quella tragedia. Inoltre, nel Gran Premio del Belgio, a Spa, Mike Parkes uscì di pista in modo quasi altrettanto disastroso, soffrendo ferite che posero termine alla sua carriera in Formula 1.

Per l’anno successivo non fu annunciato ufficialmente nessun cambiamento del Direttore Sportivo ma, sui circuiti, Lini fu affiancato da Franco Gozzi, braccio destro di Enzo Ferrari che progressivamente divenne di fatto il nuovo team manager. Lini fu autorizzato a riprendere la sua attività giornalistica, anche se sotto pseudonimo: e, infatti, molti articoli scritti da lui apparvero sulle pagine della rivista Autosprint firmati “Enzo Franchi”.

Ma anche quando dirigeva il team, dopo quello spettacolare esordio a Daytona ’67 di cui si è detto,

Franco aveva trovato tempo e modo di raggiungere di tanto in tanto certi punti dei circuiti con le sue macchine fotografiche per ritrarre le sue auto in azione. Le vecchie abitudini sono dure a morire, particolarmente quella della fotografia, per cui provò una grande passione per tutta la vita: qualcosa che si sarebbe potuta definire un hobby, un divertimento, mai soltanto un lavoro.

Dal 1969 in poi recuperò la sua piena indipendenza dalla Ferrari e proseguì la sua carriera di giornalista e fotografo specializzato nelle corse d’auto, scrivendo da ogni parte del mondo e fotografando per pubblicazioni italiane ed estere.

Lo stile di scrittura di Franco era esemplare per la sua essenzialità. “Chi-cosa-quando-dove-perché?” era la sua Bibbia. Non cercava effetti poetici o decorativi: meglio un aggettivo in meno piuttosto che uno in più, amava dire. Ma non era un mero cronista. La sua conoscenza delle corse, che adorava, era seria e profonda e gli consentiva di analizzarne ogni aspetto – tecnico, politico, organizzativo – e di esprimere serie e appropriate lodi o critiche.

Parallelamente, la sua vulcanica energia lo portava ovunque, dai box al paddock, dalla sala stampa a “quella” curva particolarmente impegnativa, non mancando mai nulla di ciò che contava, e questo lo faceva eccellere insieme all’altro dei suoi considerevoli talenti: la fotografia. Con il tempo affinò la sua tecnica, precisando il senso dell’inquadratura e l’autentico “sapore” dello scatto: Jim Clark e Colin Chapman a braccia incrociate e pollici alzati sulla linea d’arrivo del Gran Premio del Sud Africa 1968, a parte la genuina bellezza dell’immagine, danno vita a una scena intrisa di valore storico e pathos umano: l’ultima vittoria di Jim in un Gran Premio.

Di ritorno dai suoi viaggi, delle immagini si prendeva cura sua moglie Hélène, alla quale va riconosciuto il merito di avere creato un archivio di rara razionalità. Ogni negativo in bianco e nero di 36 fotogrammi veniva tagliato in sei strisce, ognuna delle quali era infilata in una custodia di carta (non di plastica!) insieme con i suoi contatti su cui poche essenziali parole erano scritte per aiutare nel lavoro di identificazione: “partenza”, “vincitore”, “incidente” ecc.

Le diapositive a colori erano conservate con i loro supporti di cartone, sui quali erano scritte le note. Prima dell’avvento della fotografia digitale non si conosceva un metodo di conservazione migliore. Ed è una fortuna che un simile tesoro sia entrato a far parte della Grand Prix Library, ormai da molto tempo gestita in Gran Bretagna da persone animate da un’intera vita dalla stessa passione per l’automobilismo.

Quanto al suo lato personale, Franco era un impenitente fumatore, capace di consumare ogni giorno un pacchetto o anche più delle sue amate, forti e potenzialmente letali sigarette francesi Gauloises. Lo ricordo molto bene perché seguimmo insieme, con la stessa auto, due edizioni del Tour de France Automobile (1964 e 1969), percorrendo qualcosa come 6.000 chilometri dalla partenza all’arrivo di quel rally che durava una settimana. Io avevo smesso di fumare nel 1965 ma quattro anni più tardi fu come se avessi ricominciato (tanto più che l’auto era la sua minuscola Lancia Fulvia coupé Zagato!). Con questa incontrollabile dipendenza, secondo le statistiche, era praticamente inevitabile contrarre il cancro e Franco non fu abbastanza fortunato da costituire un’eccezione. Il male lo attaccò verso la fine del 1995 e ben presto non poté più viaggiare in aereo. Eppure, negli intervalli fra le terapie, fu ancora in grado di seguire qualche corsa la cui sede fosse raggiungibile in automobile!

L’ultimo dei suoi giorni arrivò infine il 22 luglio 1996. Al suo funerale, in una calda mattina dell’estate milanese, erano presenti la famiglia, gli amici e pochi colleghi liberi dalle vacanze o da impegni di lavoro. Notata la totale assenza della Ferrari. Non un dirigente, un dipendente, non un semplice meccanico in tuta, nemmeno una bandiera.

Una settimana prima di Natale, il 17 dicembre, Franco fu raggiunto nell’aldilà da sua moglie Hélène, compagna di una vita e insostituibile collaboratrice. Lasciarono la figlia Béatrice e le nipoti Alice, Anaïs e Sonia.

Nel ricordare questa straordinaria coppia ciò che torna subito alla mente è la professionale capacità organizzativa di Hélène e la mercuriale energia di Franco, a tratti in qualche modo consapevolmente esibita, sopra le righe. Per questo motivo noi, colleghi e amici, spesso lo prendevamo in giro dicendogli, per esempio: “Franco, perché non hai scritto una riga su quell’argomento? Sicuramente è perché hai scattato le foto, non è così?”. Lui scuoteva il capo, sorridendo e invitando tutti quanti a fare silenzio e a lavorare per guadagnarsi la pagnotta. Questo è un esempio fra i tanti che testimoniano la profondità della sua passione per l’automobilismo e la seria professionalità con cui lo seguì per tutta la sua vita.

Ancora un episodio particolarmente significativo. Novembre 1989. Il giorno dopo il Gran Premio del Giappone molti giornalisti del “circus” della Formula 1 arrivarono all’aeroporto di Tokyo, allegri e rilassati pensando alle prossime due settimane da trascorrere in qualche esotica vacanza (Thailandia, Bali e dintorni) in attesa del Gran Premio d’Australia. Solo Franco era visibilmente in tensione, valigie, check-in, spostandosi in fretta qua e là con quel suo inconfondibile passo… sempre così vivace, dinamico, sprizzante energia. E quando gli fu chiesto il perché di quella inarrestabile fretta rispose: “Cosa? Non vi hanno detto che domenica prossima a Città del Messico c’è l’ultima gara del Campionato mondiale Sport-Prototipi?”. Aveva 67 anni, si era sorbito un volo da Milano a Tokyo al quale stava per aggiungere Tokyo-Mexico e infine Mexico-Milano prima di raggiungere l’Australia. In parole povere, una volta e mezza il giro del mondo! Semplicemente, c’era ancora tanto da raccontare, da fotografare, da provare. Non voleva perdere nulla, non lo avrebbe sopportato.

Ricordando il mio mentore e caro amico Franco Lini sono tentato di citare Shakespeare, e Antonio riferito a Bruto: “Questo fu un uomo!”.

Gianni Cancellieri

Write a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


*